“Qualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popolo” recita così in una delle sue più belle canzoni l’eterno Giorgio Gaber. Una frase che rispecchia fedelmente lo spaccato all’interno del Partito Democratico all’indomani del voto dello scorso 25 settembre, i dem hanno infatti raccolto il peggior risultato della loro storia politica e si avviano in pieno stallo e nella confusione più totale ad eleggere il segretario che dovrà succedere al dimissionario Enrico Letta. Tutto questo mentre Giorgia Meloni guida il governo più a destra della storia repubblicana.
Ma procediamo per gradi. Il Pd nasce nel 2007 dall’unione tra i Democratici di Sinistra e la Margherita ed esclusa l’iniziale parentesi del Berlusconi IV (2008-2011) e del Conte I (2018-2019) è stato in maniera quasi ininterrotta al governo del paese. Proprio in questo frangente politico lungo nove anni avviene la “mutazione” all’interno del partito storicamente erede del PCI, da partito d’opposizione diventa partito della “responsabilità” in un balletto fatto di governi tecnici o maggioranze anomale di palazzo (la cui costituzionalità non è assolutamente messa in dubbio). L’effetto di queste scelte è quello di aver sciupato l’identità del partito, i democratici escono da quell’agone politico che tanto aveva consacrato la sinistra, ovvero la piazza, per arroccarsi in un freddo elitismo da salotto tanto da guadagnarsi il caratteristico appellativo di “Partito della Ztl”. La forza progressista non riesce nell’opera di governo ad approvare le istanze richieste dalla base del proprio elettorato, che dopo la parentesi dolceamara del renzismo non si sente più rappresentata (se non per rare eccezioni) e lamenta divisioni interne che allontanano il partito dai reali problemi.
Un primo campanello d’allarme squilla il 4 marzo 2018 quando a vincere le elezioni politiche è il Movimento 5 stelle. I grillini con il loro modo barricadero di fare politica diventano un bacino elettorale trasversale che raccoglie voti da destra a sinistra inaugurando per l’Italia la stagione del populismo. Il risultato elettorale è l’evidenza di una crisi sempre più profonda, ideologica e identitaria più che strutturale, che lacera dall’interno e sfocia nella separazione dello stesso Renzi alla vigilia del Conte II.
Il merito del Movimento di aver intercettato parte della domanda di sinistra attuando alcune misure di politica sociale (il tanto discusso Reddito di cittadinanza in primis) e la lotta tra favorevoli e contrari all’alleanza con i 5 stelle contribuiscono ad acuire l’impasse tra le anime del partito e a distaccare l’elettorato che diventa sempre più mobile e fluttuante, così ad un mese dalla formazione del neo governo Draghi e in piena emergenza pandemica il leder dem Nicola Zingaretti si dimette. Al suo posto viene eletto il già Presidente del Consiglio Enrico Letta, è il quarto segretario in 4 anni. I fallimenti rappresentati dalla mancata approvazione del DDL Zan e della proposta sullo Ius Scholae nell’esecutivo di unità nazionale sono gli ultimi segnali di quel lento stillicidio che ha portato la coalizione di centrosinistra alla debacle durante la recente tornata elettorale.
Gli elettori hanno condannato non tanto il programma elettorale ritenuto largamente condivisibile, quanto la discrepanza su quanto (non) fatto in questi anni di governo. Il risultato è severo e impone una meditata riflessione, come annunciato dal stesso Letta, tuttavia analizzando l’andamento del voto per età (in modo particolare nella fascia di età 18-34 anni) si evince come l’elettorato di centrosinistra sia in larga maggioranza rispetto alla coalizione avversaria.
Che non sia un prezioso indizio per i dirigenti democratici?
Non sarebbe opportuno rimettere al centro gli elettori e ripartire dalle loro proposte e dalle loro energie (posto che ancora ce ne siano)?
Come scrive Francesco Piccolo su Repubblica: “ Qui c’è un mondo fatto di giovani che hanno a cuore i problemi che un partito di sinistra dovrebbe avere a cuore quanto loro".
Stretto nella morsa tra un Movimento 5 stelle con un Giuseppe Conte che si candida a guida del centrosinistra e nel tentativo di recedere definitivamente il cordone con il duo Renzi- Calenda i democratoci sono ad un bivio in cui in ballo c’è il futuro del partito: avviare un percorso di rinnovamento con una nuova segreteria, una nuova dirigenza con regole e proposte diverse o morire come una marchetta in una semplice operazione di maquillage gattopardesca?
Il Partito Democratico deve scegliere cosa vuole diventare. Vietato sbagliare.
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